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mercoledì 19 aprile 2017

La cura educativa: dai di-sturbi ai bi-sogni

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Negli articoli precedenti ci siamo soffermati a cercare di descrivere la nostra criticità rispetto a certi orientamenti eccessivamente psicocentrati e, soprattutto, volti all'ansiogena ricerca di risposte che, spesso, trovano quiete solo nella definizione di una diagnosi la cui funzione, anziché essere l'inizio di un processo complesso e articolato, ne determina la fine o, peggio, l'illusione della diagnosi quale panacea, si trasforma in una perenne rincorsa all'eziologia più precisa e perfetta, dimenticando che (mai come nelle situazioni di disagio psichico e sociale) la naturale spinta alla guarigione che la diagnosi promette, si concreta solo nel viaggio della cura.

Come Antonella, che ricevo per la prima volta in studio ormai diciottenne, dopo che da sempre combatte, insieme alla sua famiglia, contro una complessa malformazione cerebrale con crisi epilettiche in comorbilità con un'infinità di altri disagi. Antonella, infatti, ha un campo visivo ridotto che spesso è causa di cadute e fratture; Antonella ha progressivamente sviluppato una condizione di sordità per cui le è stato innestato un impianto cocleare che però non ha mai funzionato; Antonella ha un linguaggio pasticciato, e soffre perché capisce ma fatica a farsi capire; Antonella non ha il senso del tatto, mentre il senso dell'olfatto pare sviluppatissimo e sente sempre odori fastidiosi; Antonella grazie alla numerosa comunità di zii, nonni, cugini è stata coccolata, vezzeggiata, supportata, trasportata da una parte all'altra dell'Europa in cerca dell'ultima diagnosi -appunto- sempre quella definitiva, ma nessuno si è mai soffermato ad insegnarle come si fa una pastasciutta (e che sorriso quando scolò da sola i suoi primi maccheroni fumanti), a comprarsi un vestito, a stare in casa da sola, insomma tutte quelle piccole e grandi cose che fanno davvero la vita.

Oppure Alberto che, dopo pochi mesi dall'inizio della scuola primaria, ancora fatica con penne e quaderni. Cosi le maestre convocano i genitori perché, dicono: "Alberto è lento, non sta al ritmo dei suoi compagni," e aggiungono: "Siamo un po' preoccupate." -dopo appena sei mesi!!! Comunque, due genitori che fanno? Ovviamente si preoccupano anche loro. In effetti Alberto è lento anche a casa, nel vestirsi, nel mangiare e, allora: alle visite neuropsichiatriche si susseguono quelle psicologiche e logopediche, senza farsi mancare un buon psicomotricista e via speculando. Dopo un anno di indagini nulla risulta, intanto però Alberto è ancora lento, ha una bella etichetta per cui persino i compagni hanno iniziato a prenderlo in giro e, così, inizia a isolarsi e a odiare la scuola. Ma perché nessuno ha pensato che, mentre si cercava di capire perché era lento, forse bisognava provare a renderlo più veloce con adeguate strategie che non fossero il semplice chiedergli di sbrigarsi?

Troppe volte l'amore, la paura che l'altro non ce la faccia, che soffra, che faccia troppa fatica, il dolore, i sensi di colpa, mischiati al desiderio che diagnosi e medicamenti portentosi risolvano ogni cosa, fanno dimenticare che la vita, quella vera, si esprime unicamente nel suo procedere ed ha per ognuno le sue salite, i suoi inciampi, le sue possibilità e impossibilità, e, per tutti, i suoi traguardi senza i quali la mera sopravvivenza ha la meglio sulla vita.

Troppe volte siamo preda del millenario paradigma che chiede di capire prima di agire e non ci accorgiamo come, invece, la vita, nella gran parte delle sue manifestazioni: prima agisce e poi, grazie al sua agire, giunge a capire.

Queste riflessioni, frutto di tanti incontri con soggetti e famiglie che, rincorrendo il miraggio della diagnosi, dimenticano il cammino della cura, non intende demonizzare i vari test diagnostici o gli approcci disciplinari di qualsivoglia specie, ma l'uso indiscriminato che spesso se ne fa. 

Come abbiamo scritto in vari articoli, vogliamo semplicemente denunciare la propensione pedagogica che spesso manca nei vari tentativi di giungere alla guarigione e al benessere, di affrontare l'inciampo fisico e psichico: la cura educativa che guida il nostro operare distinta dagli approcci indagativi di qualsivoglia tipologia. 

Infatti, mentre ogni diagnosi prevede (per dirla breve e chiedendo perdono per il necessario riduzionismo) la determinazione della natura o della sede di un qualche tipo di malessere, il perché di determinati comportamenti, dell'agire disfunzionale degli individui; la pedagogia, si occupa di progettare quell'agire affinché diventi funzionale e costruttivo.

Il fine ultimo della pedagogia, non è quello di creare teorie entro cui riconoscere il malessere o il comportamento più o meno disfunzionale di un individuo, o riconoscere il malessere o il comportamento più o meno disfunzionale di un individuo entro i confini di alcune teorie per poterlo denominare; ma di costituire, anche a partire da quelle teorie, processi di intervento spendibili nella pratica immediata affinché quell'individuo (lui e nessun'altro) riduca o elimini ogni comportamento disfunzionale. 

Per questo le parole di ogni diagnosi sono lontane dalle parole del pedagogista. Mentre le diagnosi parlano di "disturbi", e con essi finiscono spesso per determinare in negativo il soggetto, appunto, "dis-turbato", cogliendone anzitutto l'affezione patologica o, comunque, disfunzionale; il pedagogista parla di "bisogni" (non a caso declinabili in "bi-sogni"), centrando la sua attenzione sulle risorse che quel soggetto può mettere in campo per rivolgere in positivo la condizione di difficoltà che sta attraversando. 
Il sintomo da cui entrambi partono è il medesimo, ma cambia diametralmente la modalità di osservarlo e di curarlo, ossia di prendersene cura -e, infatti, la diagnosi si risolve in un agire indagativo che cerca di guardare dentro l'individuo, mentre la pedagogia si svolge in un agire educativo che cerca di tirare fuori (ex-ducere) dall'individuo il meglio di sé. 

È questo il motivo che, nel nostro centro, ci sollecita (a differenza di quanto si è soliti fare) a privilegiare l'azione pedagogica, senza omettere ogni necessaria attenzione teorica, bensì cercando di esaltare, per il benessere delle persone che curiamo, questa proficua complementarietà.


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